Sfide della Sanità Italiana: L’Allarme dello Svimez e l’Autonomia Differenziata.

I dati della spesa pubblica complessiva destinati alla sanità in Italia sono impietosi: nel nostro Paese solo il  6,6% del Pil è impiegato nella sanità, contro il 9,4% della Germania e l’8,9% della Francia.

Il nostro è il dato più basso tra  paesi europei superiore alla sola Grecia (5,1%) e l’Ufficio parlamentare di bilancio stima un ulteriore calo al 6,3% del Pil nel 2026.

Il confronto con l’Europa è da brividi, dopo la crisi dei debiti sovrani nel nostro Paese il disinvestimento in sanità è stato costante.

Dopo la Grecia (-26%), l’Italia è l’unica tra le grandi economie europee con un dato negativo: tra il 2010 e il 2019, le risorse pubbliche in termini reali allocate alla salute di ogni cittadino sono diminuite di oltre il 2%, in controtendenza rispetto a Spagna (+9%), Portogallo (+15%), Regno Unito (+27%), Francia (+32%) e Germania (+38%).

Con la pandemia non si è invertita la tendenza: il nostro Paese ha avuto la crescita più bassa degli investimenti in sanità tra quelli della zona euro (+0,9).

Nel 2022 in Italia la spesa pubblica ha rappresentato il 76% della spesa complessiva sulla sanità, mentre nel Regno Unito l’82%, in Francia l’85%, in Germania l’87%.

Nel nostro Paese quasi 1/4 del costo è sostenuto dai cittadini: la componente privata di spesa è aumentata dal 2010 al 2022 dal 22 al 24%,  mentre è diminuita in Germania e Francia.

La spesa privata ha sostituito la spesa pubblica anzichè aggiungersi ad essa, indebolendo le finalità di equità del SSN e aumentando le spese per le famiglie italiane.

In Italia ci sono 1,6 milioni di famiglie in povertà sanitaria, di cui l’8,2% nel Sud ,quasi il doppio rispetto al Nord Est (4%).

Per lo Svimez, lo Stato non vede i bisogni di assistenza in base al principio dell’equità orizzontale ma solo secondo i vincoli di bilancio pubblico.

L’associazione segnala come un problema la ripartizione delle risorse, allocate secondo il criterio della popolazione residente (per il 60%) e l’incidenza su di essi della popolazione anziana e dei neonati (il restante 40%) senza tenere conto dei criteri di deprivazione (le condizioni socio economiche dei territori) che fanno del Sud l’area con maggiori bisogni di cura e prevenzione.

Il criterio della popolazione non è quindi più adeguato allo scenario dei prossimi anni con le previsioni di un calo di 13 milioni di residenti in Italia nel 2080, di cui il -40% al Sud.

Lo Svimez stima che nel 2080 il Nord avrà un aumento delle ripartizione delle risorse pari al + 6,7%, il Centro +0,3%, mentre il Sud una diminuzione del  -7%.

Su base regionale la Lombardia avrà un aumento delle risose del + 3,6%, l’Emilia Romagna del +1,5%, mentre saranno in calo quelle per la Sicilia -1,7%, la Calabria -1,6%. In termini economici complessivamente il Sud perderà 9 miliardi.

Il mancato finanziamento del SSR delle regioni del Sud già oggi incide fortemente sulla qualità del servizio offerto, c’è una inadempienza nella fornitura dei Lea da parte di cinque regioni meridionalisu otto con l’eccezione di Puglia, Abruzzo e Basilicata.

L’inadempienza si misura a partire dagli screening oncologici e dal fenomeno dell’emigrazione sanitaria.

La copertura degli screening gratuiti per le mammografie, un esame inserito tra i Lea e quindi da garantire in modo  uniforme alle donne dai 50 ai 69 anni su tutto il territorio nazionale, ci consegna un dato preoccupante.

Nel Nord  hanno aderito allo screening  l’80% della popolazione coinvolta, nel Mezzogiorno solo il 58%, con il dato peggiore in Calabria (42,5%).

Un altro indicatore del ritardo nel fornire cure dei sistemi sanitari meridionali è dato dalla mobilità passiva.

Nel 2022 su 629 mila migranti sanitari, il 44% è residente al sud, il saldo netto nel Meridione nel 2022 è di -11 mila pazienti oncologici.

Il tasso di mobilità oncologica di lungo raggio, verso  SSR  non confinanti con la regione di residenza, pone al primo posto la  Calabria (43%), al secondo la Basilicata (25%),  seguite dalla Sicilia (16,5%). Per la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna il dato è inferiore all’ 1%.

La sanità italiana produce al suo interno una discriminazione non solo territoriale ma anche di genere: il tasso della mobilità chirurgica per tumori alla mammella è superiore al 40% per le donne residenti in Calabria, Basilicata e Molise.

Lo Svimez propone delle soluzioni ed evidenzia delle proccupazioni che A.Ba.Co. condivide:  richiede un aumento al 9% del Pil della spesa sanitaria; l’inserimento dei fattori socio economici nella ripartizione del fondo sanitario nazionale come previsto da dlgs n.68/2011 sul federalismo fiscale; sottolinea il rischio di perdere, con l’avvio dell’autonomia differenziata, l’obiettivo dei Lea e di conseguenza il principio dell’equità orizzontale.

Con l’autonomia differenziata in particolare tra le competenze che potrebbero essere richieste dalle regioni ci sono la gestione e la retribuzione del personale, la regolamentazione dell’attività libero-professionale, l’accesso alle scuole di specializzazione, le politiche tariffarie, le valutazioni di equivalenza terapeutica dei farmaci, l’istituzione e la gestione dei fondi integrativi sanitari.

Il rischio del trasferimento delle competenze in un contesto già difficile in cui i Lea non sono finanziati totalmente a livello nazionale, come ci dicono i dati che indicano ben cinque regioni sulle otto meridionali come inadempienti, mettono ulteriormente a rischio la qualità del servizio sanitario.

Inoltre l’autonomia differenziata aumentando la sperequazione finanziaria tra SSR amplia le diseguaglianze interregionali nelle condizioni di accesso alla salute.

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