Il diritto alla salute come diritto fondamentale dell’individuo

Il diritto alla salute rappresenta uno dei principi fondamentali dell’essere umano. Senza salute
vengono compromesse la capacità lavorativa, le relazioni sociali e familiari e, nei casi più gravi, la stessa sopravvivenza dell’individuo. Ne consegue che la conservazione di un buono stato di salute costituisce per ogni cittadino un interesse primario, indispensabile per condurre una vita dignitosa.

La salute prima del 1948
Prima del 1948 la salute non era considerata un diritto fondamentale individuale, bensì un interesse collettivo. Nello Stato postunitario, disciplinato dallo Statuto Albertino, l’attenzione era rivolta soprattutto alla sanità pubblica, intesa come strumento per tutelare l’ordine sociale e prevenire le frequenti epidemie, favorite dalle scarse condizioni igieniche.
L’obiettivo principale era quello di garantire una popolazione sana e numerosa, ritenuta essenziale per la forza e la sopravvivenza dello Stato, più che per la tutela del singolo individuo.
Alla fine dell’Ottocento, il Codice sanitario accentrava le competenze in materia nel Ministero dell’Interno, mentre la Legge n. 6972 del 1890 sulle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (cosiddetta legge sulle IPAB) ricondusse le attività delle opere pie e degli istituti religiosi di assistenza nell’ambito dell’amministrazione statale.
Tale impianto rimase sostanzialmente immutato anche durante il periodo fascista, quando la normativa in materia di igiene costituiva il profilo più rilevante del diritto alla salute (Regio Decreto n. 1267 del 1934).
Successivamente alla lotta di liberazione dal Nazifascismo l’Assemblea Costituente elaborò il concetto di “diritto alla salute” sancito poi dall’Articolo 32 nella Costituzione.
«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
L’articolo 32 della Costituzione finalmente esprimeva una visione unitaria del bene “salute”, inteso come condizione di benessere fisico e psichico dell’individuo, ma anche come interesse della collettività. Venne inoltre affermato il diritto alle cure gratuite per gli indigenti, fondato su un principio solidaristico che oggi, nelle società ultraliberiste viene messo sotto attacco in favore di logiche di mercato orientate unicamente al profitto.
Durante i lavori dell’Assemblea Costituente, in occasione dell’esame dell’articolo 26 del progetto di Costituzione, fu rimarcato il legame, anche giuridico, tra tutela della salute e la realizzazione integrale della libertà e dell’eguaglianza degli individui.
In tale prospettiva, il diritto alla salute, nel suo senso più autentico e universalistico, e la sua tutela devono essere considerati elementi essenziali per l’affermazione dei valori di solidarietà, uguaglianza e giustizia sociale, in coerenza con l’articolo 3 della Costituzione, e nello specifico con la seconda parte dove si sancisce il principio di uguaglianza sostanziale:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale delPaese». Come ebbe a dire Piero Calamandrei: «Una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale. Non è una democrazia in cui tutti i cittadini siano messi in grado di concorrere alla vita della società e di portare il loro contributo al progresso comune».
Dunque, senza una reale attuazione del principio di uguaglianza sostanziale (art 3, II Co. Cost.), non può esistere un diritto alla salute autenticamente universale.
QUESTI SONO TRA I VALORI GIURIDICI E UMANI UNIVERSALI CHE LA LOTTA DI LIBERAZIONE CI HA CONSEGNATO: PRINCIPI PERMANENTI, NON NEGOZIABILI.

Il diritto alla salute nelle lotte dei decenni successivi
Negli anni immediatamente successivi all’adozione della Carta costituzionale si iniziò a dare concreta
attuazione al diritto alla salute come diritto universale, tuttavia VA RICORDATO che solo alla
fine degli anni Sessanta, grazie alle lotte sociali e popolari, il dettato costituzionale trovò
un’applicazione effettiva. Fu in quel periodo che prese forma un percorso politico e culturale che
portò riforme di grande portata.
Sistema Sanitario Nazionale: istituito nel 1978 (L.833), rappresenta uno dei momenti più alti dell’attuazione dell’articolo 32 della Costituzione. Esso si fonda sui principi di UNIVERSALITÀ, UGUAGLIANZA ED EQUITÀ, cioè garantendo l’accesso alle cure a tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni sociali o economiche e in proporzione ai bisogni.
Dunque, essendo il diritto alla salute una diretta estrinsecazione delle norme costituzionali, volte a orientare l’intero sviluppo democratico del Paese, esso non può essere oggetto di modifiche o interventi che ne riducano la portata. Lo stravolgimento di un sistema così organicamente connesso, in cui i diritti sono intrecciati in una trama unitaria, conduce inevitabilmente al disfacimento complessivo dell’ordinamento democratico, come purtroppo si osserva oggi in Italia e non solo.

Superamento del profilo pubblicistico del diritto alla salute
A partire dagli anni Settanta, il diritto alla salute ha subito una significativa evoluzione anche sotto il profilo giuridico. Esso si è affermato come diritto primario e assoluto dell’individuo, volto alla tutela della propria identità fisica e psichica.
Tra le tappe legislative fondamentali, oltre all’istituzione del SSN si ricordano:

  • La legge 180/1978 (Legge Basaglia) sull’assistenza psichiatrica, che ha rappresentato un salto di qualità culturale e civile, segnando la chiusura dei manicomi e introducendo una riforma radicale dell’assistenza psichiatrica. Essa ha trasformato la concezione della malattia mentale, promuovendo l’inclusione sociale e il rispetto della persona attraverso i servizi territoriali di salute mentale, ponendo al centro l’individuo e non la patologia.
  • La legge 194/1978, frutto delle lotte del movimento femminista, che ha riconosciuto alla donna il diritto di interrompere la gravidanza in condizioni di sicurezza e legalità.

Da allora, gli aborti sono diminuiti drasticamente, passando dai 234.000 del 1983 (anno record) ai 66.400 del 2020: un risultato che l’Istituto Superiore di Sanità ha definito come uno dei più brillanti interventi di prevenzione di salute pubblica in Italia.

Sul piano giurisprudenziale, la Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 88 del 1979, ha ribadito che la salute è un diritto fondamentale dell’individuo, opponibile non solo alla pubblica amministrazione MA ANCHE AI PRIVATI.
Negli anni successivi, la giurisprudenza ha ampliato ulteriormente la nozione di salute, includendovi la dimensione psichica e identitaria. Emblematica, in tal senso, è la sentenza sul cambiamento di sesso, nella quale l’intervento medico è stato riconosciuto come terapeutico e funzionale alla realizzazione del diritto alla salute della persona transessuale.

Verso i giorni nostri
Nel corso del tempo la Costituzione ha subito alcune modifiche significative, tra le quali, riguardo al Diritto alla salute, spicca quella introdotta con la Legge costituzionale n. 3 /2001 che ha interamente riscritto il Titolo V della Carta, modificando l’assetto del governo territoriale e i rapporti tra Stato e autonomie locali, e tra l’altro, ampliando le competenze di Regioni e Province delegando loro l’organizzazione e la gestione dei servizi sanitari.
Ciò ha determinato, di fatto, la creazione di ventuno diversi sistemi sanitari regionali, nei quali l’accesso ai servizi e alle prestazioni sanitarie risulta tuttora profondamente diseguale.
La prospettiva del cosiddetto federalismo solidale avrebbe dovuto assicurare:

  • l’unitarietà dei livelli essenziali di assistenza (LEA) su tutto il territorio nazionale;
  • l’equità di accesso ai servizi per tutti i cittadini;
  • la solidarietà fiscale come strumento di finanziamento del sistema.

Tuttavia, questo obiettivo è stato clamorosamente mancato.
Invece di rafforzare il Servizio Sanitario Nazionale, la riforma ne ha indebolito l’unitarietà, generando disparità sociali e territoriali, soprattutto tra Nord e Sud, tra regioni ricche e regioni povere. Si rischia così di passare da un sistema solidale e universalistico a un sistema competitivo e frammentato, in cui il diritto alla salute diventa dipendente dalla ricchezza del territorio e non finalizzato a garantire la dignità della persona.

Il diritto alla salute e la fiscalità generale
Lo Stato, come ricordato, ha garantito l’attuazione dell’articolo 32 della Costituzione attraverso il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), finanziato principalmente tramite la fiscalità generale,  secondo il principio di solidarietà e attraverso il meccanismo della tassazione progressiva prevista dall’art. 53 della Costituzione, per cui tutti i cittadini contribuiscono in base alle proprie possibilità economiche per assicurare cure accessibili a chiunque, anche agli indigenti.
Tuttavia, il pieno godimento di questo diritto incontra i limiti delle risorse economiche. Le politiche di contenimento della spesa pubblica e l’introduzione di ticket sanitari hanno parzialmente ridotto la gratuità dei servizi, imponendo un bilanciamento tra tutela della salute e sostenibilità finanziaria, così riducendo la gratuità del servizio e incidendo sul principio di universalità.
A tal riguardo PERÒ la Corte Costituzionale ha più volte chiarito che i vincoli di bilancio non possono comprimere i diritti fondamentali. Con la sentenza n. 275 del 2016, la Corte ha affermato che è la garanzia dei diritti a incidere sul bilancio e non il contrario, mentre altre pronunce (come la n.62/2020 e la n.203/2008) hanno ribadito l’obbligo di assicurare i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e di mantenere equa la compartecipazione alla spesa.

Pubblico e privato, un equilibrio ormai compromesso
Come detto, la Costituzione italiana afferma che la Sanità Pubblica rappresenta il principale strumento di garanzia del diritto alla salute per tutti i cittadini, mentre la sanità privata, pur libera di operare, deve eventualmente svolgere un ruolo complementare, rispettando i principi costituzionali e le leggi vigenti. Dunque, il privato dovrebbe affiancare il pubblico in modo integrativo, non sostitutivo.
Tuttavia, i dati più recenti – come quelli del Report Mediobanca 2024 sui principali operatori sanitari
privati (con fatturato superiore ai 100 milioni di euro) – raccontano una realtà ben diversa. Il rapporto documenta gli effetti della progressiva privatizzazione e finanziarizzazione del sistema sanitario italiano, processi incentivati da politiche neoliberali e aggravati dall’attuale scenario economico e politico.
In primis, negli ultimi anni si è assistito a un progressivo indebolimento del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e parallelamente a un rafforzamento del settore privato. Le strutture PRIVATE accreditate, inizialmente concepite per ridurre le liste d’attesa, hanno finito per favorire l’espansione del privato, soprattutto nelle regioni dove il servizio pubblico è più fragile. Il fatturato e la redditività degli operatori privati hanno registrato incrementi significativi rispetto al periodo pre-Covid, mentre il sistema pubblico continua a soffrire di sottofinanziamento, carenza di personale e strutture obsolete.
Nel frattempo, un numero crescente di cittadini rinuncia alle cure per ragioni economiche: l’inflazione, la precarietà lavorativa e la perdita di potere d’acquisto rendono sempre più difficile sostenere le spese sanitarie. Il diritto alla salute, formalmente universale, risulta oggi compromesso da diseguaglianze crescenti e da una riduzione dei livelli essenziali di assistenza (LEA).
Le politiche sanitarie degli ultimi decenni, che hanno previsto incrementi minimi del Fondo Sanitario Nazionale, si sono rivelate inefficaci. In un contesto segnato dai vincoli del Patto di stabilità europeo, del Fiscal Compact e dal principio costituzionale del pareggio di bilancio (artt. 81 e 97 Cost.), la spesa sanitaria pubblica è rimasta inchiodata ai livelli tra i più bassi d’Europa.
L’Italia, dunque, un tempo eccellenza del diritto alla salute, destina oggi alla sanità pubblica una quota del PIL inferiore a quella di Francia, Germania e Paesi Bassi, collocandosi vicino alla soglia minima che consente la sopravvivenza di un sistema universalistico.
Da qui la domanda cruciale: come potrà l’Italia sostenere la spesa sanitaria pubblica nei prossimi quarant’anni, in un contesto di invecchiamento della popolazione, aumento delle malattie croniche e crescita dei costi legati alle nuove tecnologie e ai farmaci innovativi?

La sanità come spazio di mercato
Come sottolineato nell’articolo “Ricchezza e povertà, universalismo e salute” pubblicato su QuotidianoSanità.it, le nuove priorità geopolitiche e finanziarie stanno minando le basi del modello europeo di welfare, spingendo verso una privatizzazione crescente della sanità.
Il Global Wealth Report 2025 di UBS (Union Bank of Switzerland) mostra che in Italia il 5% della popolazione detiene il 50% della ricchezza complessiva. Il ceto medio si assottiglia, e la disuguaglianza economica si traduce in disuguaglianza nell’accesso ai diritti fondamentali, come la salute. Come afferma Paul Donovan (economista britannico), l’aumento delle disparità mina la coesione sociale e lo stesso principio di Universalismo.
Ma ecco l’ulteriore catastrofe forse il colpo finale alle garanzie democratiche: Le scelte politiche recenti sembrano privilegiare la spesa militare, che in prospettiva potrebbe arrivare fino al 5% del PIL, e nuovi strumenti finanziari come la Savings and Investment Union (Unione del Risparmio e degli Investimenti) – pensata per mobilitare i risparmi privati inattivi e canalizzarli verso l’economia reale. Tuttavia, se lo Stato affida sempre più al capitale privato il compito di sostenere gli investimenti, potrebbe essere tentato di ridurre ulteriormente la spesa pubblica per sanità, istruzione e previdenza, confidando che il mercato supplisca ai bisogni dei cittadini.
Come avverte Daniela Gabor (professoressa di economia e macrofinanza alla SOAS University of London) tale impostazione rischia di avvicinare l’Europa al modello statunitense, dominato da fondi privati e assicurazioni, con effetti negativi: aumento dei costi, minore qualità delle cure e diseguaglianze crescenti.
Il rischio è evidente: trasformare la salute in un settore economico redditizio, governato dalla logica del profitto anziché dal principio di solidarietà. L’espansione dei fondi sanitari integrativi e delle assicurazioni private accentua ulteriormente le disparità, creando un sistema a due velocità: un servizio pubblico impoverito e residuale per i meno abbienti, e un privato esclusivo e costoso per chi può permetterselo. È un modello che contraddice apertamente i principi costituzionali di universalità ed eguaglianza sostanziale, e che deve essere fermato.
Difendere il Servizio Sanitario Nazionale non è soltanto una battaglia per la sanità pubblica, ma una questione profondamente democratica. L’uguaglianza davanti alla malattia, la possibilità di curarsi indipendentemente dal reddito, la libertà di vivere in salute sono pilastri della democrazia costituzionale.
Quando il diritto alla salute viene eroso, si incrinano anche la coesione sociale, la fiducia nelle istituzioni e il senso stesso di cittadinanza. Per questo motivo, la sanità deve tornare al centro dell’agenda politica e istituzionale come bene comune e investimento strategico per il futuro del Paese, non come voce di spesa da contenere.
Servono politiche di investimento pubblico strutturali, capaci di:

  • garantire livelli essenziali di assistenza (LEA) omogenei in tutto il territorio nazionale;
  • potenziare la medicina territoriale e la prevenzione;
  • ridurre le liste d’attesa;
  • valorizzare il personale sanitario, oggi sottoposto a carichi di lavoro insostenibili.

Medici, infermieri e operatori non sono un “costo”, ma il cuore del sistema: rappresentano la competenza, la dedizione e l’umanità che ogni giorno rendono concreti i principi costituzionali.
La storia del diritto alla salute in Italia è una conquista di civiltà, costruita attraverso decenni di lotte sociali e progressi legislativi.
Oggi quel modello universalistico è minacciato da privatizzazione, autonomia differenziata e sottofinanziamento, che rischiano di trasformare un diritto in un privilegio.
Difendere la sanità pubblica significa difendere la Repubblica democratica, fondata sul lavoro, sulla giustizia e sulla solidarietà. Il diritto alla salute non è un LUSSO né una CONCESSIONE DELLO STATO: è una condizione essenziale di libertà, dignità ed eguaglianza per tutti i cittadini.

Verso un nuovo universalismo della salute
L’universalismo non è un retaggio del passato, ma una sfida attuale e necessaria per costruire un futuro più giusto e inclusivo. Oggi il rischio è quello di un’erosione silenziosa del welfare universalistico, sostituito da logiche privatistiche che frammentano i diritti e rafforzano le disuguaglianze. Occorre invece un universalismo riformato, proporzionale e sostenibile, che riconosca la sanità come bene relazionale, sociale e non meramente economico.
Come suggerisce Elio Borgonovi (professore emerito dell’Università Bocconi), serve un “universalismo proporzionale”: offrire prestazioni differenziate in base ai reali bisogni, superando l’uguaglianza formale per realizzare un’equità sostanziale. Oggi, fino al 50% delle prescrizioni non si traduce in cure effettive: è necessario promuovere appropriatezza, sostenibilità e responsabilità clinica- dunque efficienza si ma come prima di tutto bisogna porre fine al sistematico saccheggio della sanità pubblica, come dice anche Borgonovi.
Nel dialogo tra Edgar Morin (filosofo, sociologo e antropologo francese) e Mauro Ceruti (filosofo della scienza) si evidenzia che occorre superare la visione puramente tecnica della salute. Essa non è solo una prestazione, ma un bene pubblico complesso, intrecciato a fattori ambientali, sociali e relazionali. Serve un pensiero più umano, interconnesso e creativo, che riporti al centro la vita, la solidarietà e la cura come valori condivisi.
La salute pubblica, per restare tale, deve tornare a essere un progetto culturale e politico collettivo, non un mero dispositivo tecnico-amministrativo.

CONCLUSIONI
In ultimo, non si può non considerare brevemente che la crisi del diritto alla salute è il sintomo di una più ampia crisi di sistema che investe ogni aspetto della nostra società.
Non possiamo esimerci dal chiederci chi porti la responsabilità morale e materiale di questo “crepuscolo” di civiltà.
Parlare di diritto alla salute significa riconoscere che esso riguarda non solo il corpo, ma anche la mente, le relazioni umane, il senso di appartenenza e il benessere collettivo.
Una società non è davvero sana se le persone vivono isolate, angosciate, prive di prospettive.
La salute psichica di un popolo è oggi un indicatore fondamentale dello stato di Civiltà. Viviamo in un’epoca dominata dall’individualismo, dalla competizione e dalla mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza: dinamiche che hanno indebolito la solidarietà e distrutto i legami sociali. Ne è derivata una società tecnologicamente avanzata ma psicologicamente disorientata e umanamente impoverita.
Il massiccio ricorso agli psicofarmaci e la diffusione di patologie come depressione, ansia, disturbi alimentari e dipendenze testimoniano un disagio che è prima di tutto sociale.
Sono il riflesso di una Civiltà che ha smarrito la capacità di desiderare, di immaginare alternative, di costruire legami significativi e di lottare per cambiare la realtà.
Dare senso alla propria vita è un atto di salute: quando questo senso viene meno, ci si ammala prima nell’animo e poi nel corpo.
Come ha spiegato Mark Fisher (filosofo, critico culturale e saggista britannico), il capitalismo contemporaneo ha “rubato il futuro”, rendendo la depressione una condizione quasi strutturale.
Analogamente, Geert Lovink (attivista olandese teorico dei media) ha descritto il “nichilismo digitale” come effetto di piattaforme progettate per generare fragilità emotiva e disconnessione sociale. Il fenomeno degli hikikomori ne è l’emblema: giovani che si ritirano completamente dalla vita sociale non è solo un problema psicologico ma una reazione estrema a un sistema che non offre riconoscimento né senso.
Tutto ciò impone una riflessione radicale: la salute è anche un fatto politico.
Prendersi cura della psiche collettiva significa interrogarsi sui modelli culturali ed economici dominanti. Il modello capitalista, fondato sullo sfruttamento dunque sul primato del profitto e sulla riduzione della persona a produttore o consumatore, non è compatibile con i bisogni umani fondamentali di dignità, uguaglianza, giustizia e libertà.
Il vuoto di valori rende la società vulnerabile e incapace di costruire un senso condiviso del vivere comune. Occorre riscoprire il valore del conflitto come occasione di confronto e trasformazione: la politica, nella sua forma più alta, dovrebbe essere l’arte di gestire le differenze per costruire comunità libere ed inclusive.
In sintesi, il diritto alla salute deve essere ampliato: deve includere la dimensione psichica, sociale e culturale oltre a quella fisica.
Non basta curare i sintomi, occorre ricostruire senso, comunità e percorsi di vita significativi.
Dobbiamo offrire spazi di dialogo e di impegno, perché solo così si può restituire alla parola salute il suo pieno significato: non semplice assenza di malattia, ma pienezza di vita.
Una società che non coltiva solidarietà e giustizia è destinata a disgregarsi.
Serve un nuovo umanesimo? Si serve un nuovo umanesimo, capace di rimettere al centro non il profitto ma la persona.
A questa cura non possiamo rinunciare.

Fabio Grimaldi Legale A.Ba.Co

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